venerdì 6 aprile 2007

IOMARE


Numero 2 della collana libero di stile

copyright ©
Liberodiscrivere
Studio64 srl Edizioni Genova
prima edizione Luglio 2004

Questo libro è reperibile su:
www.liberodiscrivere.it

la fotografia in copertina è di Gloria Chilanti

La riproduzione, anche solo parziale, di questo testo, a mezzo di copie fotostatiche o con altri strumenti, senza l’esplicita autorizzazione dell’Editore, costituisce reato e come tale sarà perseguito.

Ai miei figli



Alessandra Palombo


I O M A R E

Fotografie di Gloria Chilanti

Introduzione di Manrico Murzi

Nota di Giorgio Weiss




Il percorso acquatico si srotola in orizzontale, curvo per quanto è tondo il pianeta che ci sopporta.
La questua, patita di mare in mare, richiede l’ausilio di un remo-bastone per spingersi tra le onde della memoria: quel bagaglio di passioni, pensieri e palpiti idonei, anche se scompigliati talvolta, a svelare noi a noi stessi affinché si arrivi a conoscere l’essenza del nostro Sé: “cerco me, nel mio mare,/ per capire chi io sia”.
Remo-bastone sono i brani del cantore più amato, Teognide o Achmatova, come le riflessioni meglio incise nell’animo in moto di pellegrinaggio; e persino gli stralci di cronaca o i suggerimenti offerti da qualche giornale a salvaguardia del nostro benessere fisico.
L’unica verticalità è quella che a precipizio va incontro al fondale dell’acqua interiore: ambito esclusivo nel quale guazza lo spirito nella sua smania verso il Settimo Mare; laddove il remo-bastone, deposto, non compare, né serve più, giacché acqua-salata e coscienza-di-sé formano quel tutt’uno chiamato Iomare.
Il gabbiano, gatto che vola, cerca ancora una salpa o una mèndola per la propria fame, ma la ricerca non impegna oltre, né chiede ulteriori risposte.
La geometria delle stelle e dei battiti cardiaci, necessario aiuto alla tribolazione del navigare, è contenuta in un unico cielo senza un Profeta che lo voglia scalare. La metafora deambula il mare al plurale, quella raccolta delle acque alla quale il Padreterno appioppò il nome di “Mari”.
L’evoluzione della gagliardìa vitale ha la sua trama nei liquidi, anche in quello del sangue aggrumato che talora si squaglia e si sparge nello spiazzo consacrato a tempi laici di devoto rigore e religioso rispetto.
Così nel Primo Mare lo spirito, attore scanzonato e immaginifico, alita tra i “capelli spettinati” di un’infanzia in posa, quindi ancora condizionata da una motivata vanità: “modificare la cornice del mio seno”, si chiede.
Le prime bracciate nel sale liquido sono indolenti e lente, foderate di sonno. Ma “l’energetico miele di ecucalipto”, maestro di possessione, ha forza di pazienza nell’attesa dell’impatto con il femminino: l’abbraccio sarà cosmico, in unità di anima e corpo.
Vi è poi il rito della purificazione, come all’ingresso di un recinto sacro, e il momento di cogliere i significati che anelano ai segni vitali, utili per “penetrare la trama del destino”.
Il “poeta ormai cieco” ha buoni gli occhi dell’anima, e gioisce con agio del vento che disfa corolle di fiori e ciocche di capelli, del giuoco che corre sui prati e giù per le valli: Oh, il mare amniotico!, nostalgico inciampo d’ogni essere umano.
Nel Secondo Mare la solitudine e la dispersione dei punti di riferimento diventano angoscia lontana, e i sapori di mare e di terra circolano nelle stanze del cuore più che tra le pareti dello stomaco. Intanto il desiderio spinge ancora oltre le sue occhiate, mentre persone e cose di un amato circuito urbano, qual è in questo caso la Livorno di tempo addietro, rotolano suoni e inciampi graditi.
Nel Terzo Mare, dopo stagioni clementi, è l’inverno che infuria, al punto che lo spirito si fa una girata in groppa a un gabbiano, mentre “pesci azzurri sprizza...no / gocce d’argento”.
Qui si leva l’ode alla navigazione, una delle più belle mai ascoltate: la vita sui bastimenti a vela e i vecchi del mare: si chiamino essi Colombo o Papà Pennello… Il ritorno è sempre all’isola, l’ago della bussola punta allo “scoglio”: all’Elba come a Itaca.
Nel Quarto Mare, in acqua pescatoria, la voce la danno granchi, spugne, polpi: battiti di chele, soffi di piccoli polmoni liberati, guizzi di alette e schizzi di tinticcio… interiorità dedite all’espressione. E sono vive e pulsanti le alghe e le barche, i sassi di fondo e le banchine, le velelle e le petroliere, le darsene e gli oceani.
Nel Quinto Mare vi è smarrimento, sì, ma piena percezione del proprio corpo come barca che ci porta: “a te, acqua, / offro il mio corpo, / a te, onda, di giocare con la nuca, / a te, mare, / di sommergermi, tutta / al largo”.
Nel Sesto Mare, vibra la luce e l’intreccio di fibre e significati patito e operato da dita assidue. Vi è colloquio, finalmente vibrante, e la bella immagine di un atto amoroso: “Un faro e la luna a baciarsi nel buio e / via tra i flutti a rotolarsi le gocce”.
Nel Settimo Mare è la catarsi, l’appagamento dello spirito che si era messo in cammino. L’abbandono “al canto del vento / Voce del mare”: la donna dell’isola, di qualunque isola come luogo circoscritto e separato, è qui disegnata con immagini ricche di un vissuto sacrificale, fino ad essere Persona: l’onda la fa apparire mutevole, ma non è lei che si muove.
Non manca la conclusione di questa musica in acqua: è il Post Scriptum, quel Do che arriva dopo la scalata delle sette note, e fa riprendere il ciclo, evoca resurrezione e speranza. Caffè e brioche sono un riferimento mattiniero che distribuisce consolazione, e però l’intreccio di significati si compie oltre lo stato sensibile, quando l’orizzonte della propria interiorità non conosce né alto né basso, quando l’Iomare percepisce padronanza di dimensioni e stati di coscienza.

Manrico Murzi

Genova, 4 giugno 2004

I O M A R E




E Iddio disse: “Si radunino tutte le acque,
che sono sotto il cielo, in un sol luogo
e apparisca l’asciutto”. E così fu.
E Iddio chiamò l’asciutto “Terra”
e la raccolta delle acque chiamò “Mari”.
(Genesi I, 9-10)







PRIMO MARE



Grumi di sangue si sciolgono
nel tempio del mio tempo
e il vento di ponente mi trasporta
tra i capelli spettinati
di bambina in posa su una bitta.

Cerco me, nel mio mare,
per capire chi io sia,
come, perché e se vorrei
modificare la cornice del mio seno.


*


Ciondola nel vuoto dondolandosi,
ruota il collo, il pensiero incosciente,
cerca con lo sguardo un ingranaggio
che lo spogli da apatia sonnolente
per percorrere sentieri appena scorti;
nessun tornado o nebbia o pioggia,
né nube o sole o tuono,
al limitare
solo aria immobile e pallida,
e lui paziente
che attende l’incontro
con un soffio di brezza,
energetico miele di eucalipto,
per godere con amplesso lussurioso
e discendere al suo braccio,
al calare delle ombre, sopra il cosmo.


*


Il “nonnino” ha ritrattato la confessione.
Stamani, negando ogni addebito, ha subito dichiarato di aver ammesso la propria colpevolezza solo perché stanco dopo sei giorni di continui interrogatori.
Presidente: “Ma perché allora avete confessato?”.
Imputato: “Ho fatto soltanto ciò che la questura mi chiedeva”.
Presidente: “È vero che voi circuivate l’inserviente altoatesina Giovanna F.?”.
Imputato: “Alla mia età sto in piedi per miracolo”.
Riferendosi ai suoi precedenti, l’imputato ha detto di non essere mai stato un disertore austriaco: “Ho pagato tutti i miei errori; sono venuto in Italia e vi sono rimasto perché di sentimenti italiani. Sono come Cesare Battisti”.
(Il “Giallo del Caffellatte”, tratto da “Il Telegrafo” del 26 novembre 1963)




*


È l’ora di ritirarsi nella foschia marina
per disinfettare le ferite,
sfogliare il libro del presente,
fotografarlo a debita distanza.

È l’ora di riabbracciare l’anima
per recuperarne il fulcro,
volgersi verso un segno, un altro sogno
e rientrare, a viva voce, nella vita.


E di nuovo dalla rupe di Lèucade nel bianco mare mi tuffo,ubriaco d’amore.( Anacreonte versi 31/376 P.)


L’oggi irradia la sua pelle chiara
ancor calda di letargo breve,
la pettina, la lava, l’ara tutta
l’attira a sé lasciandole una benda
a celare quanto a lei sta preparando,

il presente cala
i quadri del prossimo futuro,
e lei, raccolta la sua essenza, s’avvia
a penetrare la trama del destino.


*


Cadevano petali in seta su petali veri
mentre cantava il poeta i suoi versi.

- Che strano vecchio - pensava la bimba
ascoltando il poeta dagli occhi velati.

Poi riprese a giocare in un campo,
e il vento disfece il suo ciuffo
a pochi metri dal mare di maggio.

Marchiava la valle, la voce profonda
del vecchio poeta ormai cieco.

Cadevano petali in seta su petali veri
mentre cantava il poeta i suoi versi.


*


Immersa in versi
sconosciuti,
è strana questa sera
in cui l’aria rarefatta
non lascia trasparire
che ombre opache
ancor più incerte
delle sagome grigie
proiettate dai bambini
sui muri sbiaditi.
Chiudo gli occhi
e attendo i tuoi versi
che poi non sono miei
non sono rivolti a me,
ma parlano di me
senza saperlo


per ritrovare nell’eco del ricordo
l’antico mare amniotico perduto
un inconscio ritorno vagheggiato
ad età inconsapevoli e felici.(F. Berardi)

SECONDO MARE




L’infanzia ho sotterrato/ Nel fondo delle notti/ E ora, spada invisibile,/ Mi separa da tutto.
(G. Ungaretti)



Il mio paese era senza chiesa, privo di negozi, con quattro palazzi principali dai nomi e dagli stili altisonanti: prima navetta, scoglio di sale, piramide, seconda navetta; aveva una piscina azzurra nascosta da alte rocce e conosciuta solo dai paesani.

D ’inverno, solitaria, vi coglievo alghe d’ogni varietà
e d’estate mi cibavo di patelle; discese scivolose
portavano a raggiungerlo via mare e lì trovavo amici
a volontà .

Lo osservo oggi, ma scorgo solo un arcipelago di
scogli.

Eppure scioglie la lingua al melograno,



deterge l’aria linda isolana,
la inonda di iodio,
permea e modella l’intimo
il vento forte dell’alba buia.

Dietro le bacche ancora verdi
del cespuglio di agrifoglio
fiuto una presenza,
la avverto nei bulbi dei crocus
in procinto di colorare
la grigia stagione.

Rischiarato dal primo raggio,
vedo sorridere il tuo profilo;
non so chi tu sia,
non so dove tu sia,
non so come tu sia,
respiro il tuo odore
e mi rallegro




nella casa del vento, sul tetto marino, dove sale dal
basso il salmastro, dove accanto al faro a forma di
stella scruto a ovest al di là del canale.



*



I genovesi non potranno più ave re nei bar la scorzetta di limone o d’arancia nell’ aperitivo. Una recente ordinanza del sindaco vieta nei pubblici esercizi - bar, ristoranti, osterie, mescite - l’uso di agrumi senza la preventiva asportazione della scorza e l’uso delle scorze in alcune bevande. Motivo del provvedimento: evitare danni alla salute che potrebbero derivare dalla possibile presenza sulla scorza di agrumi di difenile, ortofenilfenolo e altre sostanze chimiche usate per conservare gli agrumi stessi. Per la tranquillità del consumatore è stato precisato che gli agrumi - purché sbucciati - possono essere consumati senza pregiudizio alcuno. (“Pericolosa la scorza di limone nell’aperitivo?”, tratto da “Il Telegrafo” del 1º dicembre 1963)



*




La bimba, ferita ante tempo, ascoltava la nonna con la treccia sul capo fugare i fantasmi nell’afa di agosto:



Livorno, la vecchia, ode ancora
sferragliare l’anziano trenino.
Tra ali d’asfalto portava al mare
nonne e bambini, uomini e donne
seduti su legno,
tra odori di fumo tagliante l’azzurro.

Sentiero sassoso,
tra il verde dorato, ormai arso dal sole,
conduceva al ristoro:
sabbia rovente frescura di mare,
spuma all’arancia,

un pezzo di schiaccia salata e sabbiosa,
all’ombra odorante di legnosa cabina.



*




Mai ho visto una prima volta il mare, di pochi giorni mi posarono sull’onde.
Da allora stiamo assieme, a naso in su, a scrutare l’orizzonte, in compagnia dei venti in alta uniforme, dei cavalloni bianchi, dei temporali e della malinconica
pioggia sullo specchio acquoso di bonaccia.



Provò la ragazza, seduta sulla foglia
verde e frastagliata della favola,
a fuggire con la fantasia dalla famiglia,
a volare sino al fuoco artificiale
che deflagra,
svelta afferrando, con scatto felino,
una fulgida fiamma
a rischiarare e scaldare l’antro cavo
del suo ventre.



Felice chi, perduto nell’amore, non conosce il mare,/e non gli importa della notte che cala sulle onde.(Teognide, versi 1375-1376)



*



Il libeccio si alzava per portare un amore innocente,
arroccato per ore sul vento, a vedere le intrepide
onde mangiare la spiaggia; nel fragore dello
scontro frontale, gocce salmastre baciavano i seni.



Stringono i nodi irrisolti dell’anima,
pungono i ricci la pianta dei piedi,

calpesto la spuma dell’onda
a lavare le ali;

sulla barca lascio, a ricordo,
una calza di seta

intrisa di me,
ma il moto continuo allenta la malinconia,
che attanaglia di sera le viscere;

monotono ritmo rilassa le membra,
consente una pausa all’animo scosso
da desideri sepolti, da memorie sfumate.

Nella culla dell’acqua si calma il malessere
in moto, che viene e va come fosse marea.



Non più quel tempo.Varcano ora il muro/ rapidi voli obliqui,la discesa/ di tutto non s’arresta e si confonde/ sulla proda scoscesa anche lo scoglio/ che ti portò primo sull’onde.( E.Montale)

mercoledì 4 aprile 2007


TERZO MARE



Te sola, fra tante ch’io son stata,/ sola te non ricordo quale m’appari/ in questa di me remota immagine./ Così ero? Ancora in specchi non ti miravi,/ sapere non potevo se m’assomigliavi./ E or s’incontrano i nostri sguardi./ Come seria sei, piccina e assorta,/ parrebbe quasi veramente tu vedessi /quella che oggi io sono. (S. Aleramo )



In mondi sconosciuti a ricercarsi,
sulla coda marina d’invernata ribelle,
oltre la carovana dell’onde,
sbirciava la lotta dei venti
con i velenosi oleandri,
nel vortice schiumoso scivolava,
tra le braccia di eterne correnti risaliva.



*



Con le frange alla gonna, in sella a un gabbiano, snobbava l’atlante, atterrava nell’orbe irreale e reale dello spazio mentale. In preda all’inchiostro, viaggiava inebriata nel globo, infine, ubriaca di tanta fantastica trama lisciava la gonna e le frange, in sella a un gabbiano decollava e rientrava nel mondo.

L’attacco contro lo Stato ha raggiunto il suo culmine. Moro rapito dalle Brigate Rosse. Falciati a raffiche di mitra cinque uomini della scorta. Un auto targata CD ha tagliato la strada alla vettura del leader democristiano, poi i terroristi hanno aperto il fuoco. Convocato il Consiglio dei Ministri in seduta straordinaria, rinviato il dibattito parlamentare sulla fiducia al nuovo governo. Rabbia e sgomento nel paese. (edizione straordinaria di “Repubblica” 16 marzo 1978)

Dimenticati per un giorno i guai del Paese. Per Carlo e Diana sposi si ferma l’Inghilterra. 200.000 lire un posto
finestra.( da “ La Stampa” del 29 luglio 1981)



*



Tre ragazze in vestaglia
la sera spiluccavano, al buio,
testi indigesti e vino pugliese.

La bionda aspirava al piacere,
la mora all’amore di un nero,
la rossa a una fiamma soffusa.

Grattavano i muri coi palmi,
rapinavano i giorni
nel vecchio palazzo sul corso.


Stillavo liquori dalle foglie
del mirto selvatico,
con le sue fluorescenze feci ghirlanda
e sulla zolla nuda ramificai vitigni.


Impazzava la luce del giorno,
pesci azzurri sprizzavano
gocce d’argento.

*

Tra i gabbiani intenti a rimestare
nella via angolare
che amoreggia con il sole,

oscillava nell’acqua
ad osservare il marinaio.

Gettate le parole al vento di scirocco,
volava verso oriente,

pane e acciughe bastavano,
a virare a nuove terre.

Mollate le cime, in solitario,
annientava il panico
timore dell’ignoto;

da lei si staccavano pensieri
che in lei tornavano,
puliti dalle onde,
sotto forma di cristalli.

*

Tra gli aghi di pino,
nell’ottobre marino,
un’onda di luce
vagava;

si scaldavano gli arti
al tepore
simile a un talamo,
schiarito dalla brace
racchiusa nei teli;

la luce pulsava, oscillava
a tratteggiare profilo velato;

le labbra si chinavano
attratte dal notturno miraggio
alla bocca sfumata,

come falena che brancola
a cogliere raggio di luce;
non le fu dato raggiungere
l’invisibile traccia

e, sino al prossimo spicchio
di chiaro, riponeva e
ripiegava se stessa.

*

Poi, sul ponte, a prua,
nel porto oltre lo stretto,

di unicità vestita,
nella notte autunnale,

l’ago puntava allo scoglio.

Vibrava la nave che viaggiava nel buio.

Con il suo tutto tornava nell’isola.



Ho una nave segreta dentro al corpo,/ una nave dai mille usi,/ora zattera ora campana/ e ora solo filigrana. (A. Merini)

QUARTO MARE



Come il tuo mare l’anima si espande/ e si restringe e si raggrinza. E mostra/ ogni tanto i segreti del fondo./ Poi la valanga d’acqua li ricopre. ( M.L. Spaziani)



La giornata sonnecchia,
rollano le navi alla fonda.

In un’ansa del seno marino
increspato da ipotesi, un bagnino
ripone il rastrello in attesa di tesi.

*

Sciolti i capelli alle onde

il barometro balla,

i gabbiani chiamano l’acqua,

il binocolo, appannato dal sale,

scruta l’evolversi:

dal mare ha appreso
a rispettare il vento.



Strattona il tramaglio il pescatore.

Sorda alla supplica, sguscia alla rete

la preda di carne pregiata.

Il pesce scompare lasciando la scena.

*

Un granchio saggia lo scoglio
a guadagnare la spiaggia:
il risultato non è garantito.


Impassibile, il mare sottostante schiuma.


Suoni stranieri,
rumati dai secoli
in un unico infuso,
danno tono alla voce
dell’isola;

Apolide pietra
spugnosa, inglobo
promiscue grafie
fumanti d’inchiostro;

Foresta, libro nell’aria
malinconica nenia
in sintesi estrema
con il mio essere isola.

*



Cosa dunque definisce l’isola? È il mare, amico, con la sua eterna e molteplice instabilità, con il suo universale ambivalente canto di vita e di morte, con il suo essere strada e ostacolo, mezzo e fine.È il mare, matrice inesauribile d’ogni forma, plasmatore e trasformatore d’ogni sostanza, stupefacente respiro d’ un pianeta, capace di accarezzare e di colpire come un maglio, di bisbigliare e di urlare, di ridere e di gemere. Dipende da come sappiamo navigare, il nostro andar per isole. Esso esige dal navigante d’oggi, come dagli antichi, riti propiziatori, offerte votive, poiché Nettuno trascorre sempre con eguale impeto il suo liquido regno e il tridente percuote i flutti con uguale vigore, né il suo potere è mutato nei millenni.(G. Racheli)

“ Ma lo sai cos’è il mare, Vuriotis?
È la libertà. E la libertà è il mare”.
Poi infilò la testa nell’acqua e scomparve sotto la superficie.
“Vuriotis, siamo liberi” continuò.
“ Liberi”, replicò Vuriotis.

E si riempì il cavo della mano di sole mescolato all’acqua di mare.(Valetas)



*

Acqua di cielo sposa acqua di mare.
Un lampo e un tuono.
Tacciono gli attori secondari
davanti ai primi attori.


Tra le rocce spigolose e impervie,
dove s’ergono fiere le fortezze,
si diletta tramontana
a rufolare tra mura e gradinate;

poco serve al vento esperto
per allestire scenografia efficace
a navi, pescherecci e bastimenti
che danzano su grintose mareggiate
al ritmo di cozzanti ferri e tonfi sordi,

suono vaginale
per chi da gemma a frutto
è maturato in terra isolata per natura.

*

Cigola l’ormeggio legnoso,

scricchiolano i nodi al molo di grecale

investito dai vortici a spirale.


Un vecchio ricovera
in tepore familiare,
tempera un toscano mentre aspetta
a riprendersi il suo mare,

ed io, abile maestro muratore di tramezzi
d’emergenza

come mio padre
sul ponte di comando
in pieno oceano,

divento acciaio di nervi
per domare i banchi d’acqua
che si schiantano
sulle paratie della vecchia petroliera.




Infuria il vento/ sopra le dune,/ e l’erba selvaggia incrostata di sale/ risponde. (H.D)

martedì 3 aprile 2007

QUINTO MARE



Tu immobile starai tra flutto e spiaggia,/ piccola – oh, un punto!…- in mezzo all’infinito. (A.Negri)



Giro alla ricerca di un appiglio,
tra un ciuffo d’alghe e un ghiozzo.
Povera è la pesca dopo la moria
generata da una chiazza di petrolio.
Casca la grandine ad ossigenare
il fondo del mare addormentato.

*

Tra l’ululare dell’antica pietra,
arrancava la donna,
lottando col vento e i mulini volanti.
Sorridendo ai crinali, saltando colline
sorpassava strapiombi,
si librava tra i fogli e le foglie.

In un seno di sabbia approdava
a dispetto del vento contrario.

*

Mi scopro leggera
a giocare coll’Acqua

il mio corpo
riassapora il piacere

nel blu trasparente
rimango a cullarmi

sospesa e sorpresa
risalgo

con un rivolo rosso sul polso.

La pelle graffiata
brucia, a contatto con l’aria.

*



Un copriletto di pioggia allontanava la donna dal mondo, in dono le dava un viaggio d’un giorno all’interno di un libro: una conchiglia intenta a cucire un cappotto pesante, un falò, uno stormo di uccelli, un’onda che rastrellava i giocattoli:


Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto.La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: “ No, non voglio vedere la televisione!” Alza la voce, se no non ti sentono: “ Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!” Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: “ Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!”. O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace. Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pancia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf. Sull’amaca, se hai un’amaca. Sul letto naturalmente o dentro il letto. Puoi anche metterti a testa in giù, in posizione yoga. Col libro capovolto, si capisce. ( I.Calvino)



*

Tremule fantasie
frusciano nel fumo
del mio vizio antico
acceso tra le labbra;

giocano, nella mente,
cosciente dell’oasi
inconsistente,
tra sogno e veglia,
a riconciliare l’animo
con l’orizzonte
dell’andare quotidiano,
che dell’insieme uomo,
di rado, si rammenta.

A scavalcare
la soglia vegetale,
accolgo, senza remore,
le visioni scaturite
dalle unioni di parole.

*

Libera da stecche
fuori dal golfo ingessato,

a te, acqua,
offro il mio corpo
a te, onda,
di giocare con la nuca,
a te, mare,
di sommergermi,
tutta


al largo,

oltre la barriera delle alghe

lontana dagli sguardi,

laddove nuoto senza veste.

*

In bagliore d’Acqua,
tra scogliere turchine,

Scossa da piroscafi scorgo
un profilo d’Onda,
di Sale intrisa.

Con la liquida curva
mi preparo all’impatto.
Idilliaco anomalo incontro.

Corso d’acqua calda
coinvolge seni e ventre.
Goccia lungo il collo.

Svanita l’onda Solitaria,
resto promessa

a Futura Marea .



Ah,il mare!/Se potessi ancorarmi/Stanotte in te! ( E. Dickinson )

SESTO MARE



La bassa riva frastagliata d’insenature,/ tutte le vele fuggite in alto mare;/ asciugavo la mia treccia salina/ su un liscio scoglio lontano dalla terra. I pesci verdi si avvicinavano/ veniva il bianco gabbiano, ero insolente, prepotente e gaia/ e non sapevo d’essere felice. ( A. Achmàtova)



Lo spicchio d’acqua sprizza lucentezza,

nonostante il naufragio in mare aperto.

Correnti a limarla fanno a gara,

ma la zattera galleggia;

ignota, rimarrà al signore dei fondali,

sino a quando trainerà

la nassa intessuta con giunchi filiali.

*



“L’estate è arrivata!”: annunciava l’odore nell’aria.
Girava, girava la giornata solare, ballavano i gabbiani in cerchi larghi a nutrire col sale la neonata, nella casa che vide bambina la mamma. L’estate erano sassi dagli occhi nerastri levigati dall’onde. L’estate erano chiacchiere…



“In ogni autentica creazione c’è sempre qualcosa che Borges
direbbe in fuga, perché in fuga verso spazi indicati ma non esplicitati dalla scrittura: e qui sta in parte il motivo per cui nessun autore connoterebbe la propria opera come definitiva. ( M. Corti)

Se il logos, come dice la parola, ha bisogno di verbalizzarsi, di farsi linguaggio per manifestarsi, farsi riconoscere, per il logos della poesia, intesa in senso lato, forse dovremmo accontentarci – ma poi è veramente un accontentarsi? – del suo specifico linguaggio che non è quello della pura e univoca razionalità. Questo può sembra re un paradosso ma forse la poesia vuol dirci proprio che esiste una dimensione del vero non percepibile attraverso i puri strumenti razionali, una dimensione o, meglio, un ambito pluridimensionale, in cui possono coesistere termini opposti e contraddittori che l’esperienza del vivere registra e che l’ astrazione filosofico - scientifica tende a riportare a univocità – e tutt’al più a dialettica linearità – spesso attra verso una forzosa riduzione. Unità e pluralità, stasi e divenire, universalità e individualità, costrizione e libertà, arbitrio e necessità appaiono a chi sperimenta la poesia e l’arte binomi di un elenco che può continuare. (N. Paolini Giachery)

Chi oserebbe, chi potrebbe avere la presunzione di parlare di una “poetica”? È già molto se uno riesce a capire il funzionamento di una molla o due del suo organismo e a farle scattare quando gli servono, per uso e consumo. (M.Guidacci)

La parola … serve per uscire dalla realtà, non per starci o entrarci. Penetrare la realtà per spaccarla e farne uscire i pezzi pieni di significato in essa nascosti.
La verità del profeta, come del poeta, sta nella sua capacità di stare e di entrare nel mondo della sua carne, nel mondo che nella sua carne si è concretizzato.
La carne, il corpo, e il suo spirito, l’ombra. E il colloquio del corpo con la sua ombra. Non altri che il corpo può fare l’ombra che gli appartiene, individuo anch’essa! ( M. Murzi)



*

Nel buio, del blu tendente al verde, seguivo
il ritmo.

A seconda del suono del suono,
viravo o muta
rimanevo ad ascoltare.

Ad emularne le mosse mi ritrovai incosciente.

Un faro e la luna a baciarsi nel buio
e via tra i flutti a rotolarsi le gocce.

*

Il presente imbrunisce
il passato, appassisce
l’infanzia, indebolisce
i ricordi,

scalo montagne,
sciolgo ghiacciai,
ancoro oceani,

d’un tratto,
un banco di nebbia
indebolisce la luce;
esitante trapasso
foschia, strattono
arbusti, attraverso
paludi,

il futuro arretra ,
sguscia, scivola,
discolo indietreggia ,

assisa su schiuma
sospesa dal suolo,
attendo schiarisca,
e si scopra.

*

In fieri muovevi
- in acqua di ventre di donna -
muta, tra pieghe carnali,
ricoperta da musica stoffa,
negai orba, il tuo esistere
- prima che il gallo cantasse -
nelle mie viscere calde,
alle mense serali imbandite
da atipici ritmi, dove
rapita ascoltavo le voci,
- flauto d’emozione vibrante -
mentre tacita stavi in attesa
racchiusa, nel libro dei miei,
nella loro tragica morte;
distratta, ti nutrivo con storie
- narcotico rifugio ideale -
infarcite di brillanti arabeschi
tratte da novelle orientali
con idiomi diversi,
mentre nel chiuso vivevi
- acino in legno di rovere -
silente, scartando la voce
che ora balbetta all’aperto.





E avrà senso la morte/ e la vita – comunque la si viva -/ purché io senta ancora se soltanto/ in me fuori di me si gonfi l’onda/ la strofica onda marina/ destinata a disfarsi sulla riva.
( G. Lete)

SETTIMO MARE




Se la mia salvezza sta nel divenire sterile guscio d’ostrica, subdola murena, velenoso scorfano, m’inarco e m’immergo nel mio azzurro per riemergere in me.



*

Occhi di scoglio

lapidano i portatori d’acqua di palude,
assetati d’acqua schietta e fresca,
un tempo abbondante nelle fontanelle,
ora rare nell’aria rosa del tramonto,
non ancora trafitto da fascio lunare.

*

Oppressa da massa/ Asfissiata dai fumi

spalanco all’ossigeno

al canto del vento/ Voce del mare/

che dissala le lacrime

per l’Amore volato/ violato.



Carezza di brezza/ Inondata da spruzzi/

deterge le gote e aspira le membra,

in sentieri di osmosi/ simbiosi

disperdo le ansie

ritrovo il piacere/ Riprovo a rinascere.

*

La donna dell’isola
è donna di ghiaia di riva rappresa,

è donna di mare
rena che sparse il suo sale
sul manto marino

è occhi innocenti arrossati,
sale asperso dal moto di libere onde,

è tempo che entra ed esce dal cosmo,
al variare del vento,

è amore sulla rena
della piccola spiaggia,
sotto cori invocanti la pioggia.

La donna di mare è uno strano animale,
oltre il canale allunga il suo sguardo
e poi si ritrae

oltre l’alone solare, oltre l’ibisco
si stende supina

la donna dell’isola
è la Signora dell’acqua
è isola stessa.

Ella muta e rimane se stessa.

*

Il vespro allarga ancora il suo velo,

e sul terreno, giallo ocra sbiadito,

si frantumano le terrecotte incrinate,

si rivestono di smeraldo le coste;

primizia trapela dal pesco rosato;

nella macchia, una fila di fate

dona al tempo neonato, tre melagrane

e una coppa di succo del frutto rubino

con l’auspicio che il vespro s’appisoli

e tardi a spianare il suo velo.




Là, oltre le onde evanescenti torno a esistere, all’alba, come cristallo di salsedine e il mare e mi avvolge e mi veste di trine.

POST SCRIPTUM

La sala odora di caffè e brioches.

Sulle poltrone i passeggeri
della prima corsa si appisolano.

Il buio sbottona il suo abito
per far posto alla luce.

Accosto la porta e muovo in avanti
a scoprire l’orizzonte,
per scoprire che l’orizzonte non è.

Il confine tra mare e cielo
non è che una massa informe
dal colore rosa, pelle rosa di neonato.

Ed è lì
nella mia solitudine
che non è solitudine,
immersa nella natura
che non è natura,
su una nave in navigazione
comprendo di essere il gabbiano
alla ricerca di cibo
tra le onde morbide prodotte dall’elica.

E lì non servono domande e risposte.
Non serve niente nella culla d’acqua.
Non serve niente.

Sulle panchine di plastica, asciugo,
con un fazzoletto, la guazza salmastra,
ripetendo lo stesso identico atto
di milioni di persone che nei secoli
si sono mosse in mare all’alba.

La costa sparisce,
la nave è in mare aperto.

Seduta allungo le gambe,
mi stringo nel piumino per offrire
al vento solo la pelle del viso.

Ed è lì
tra male e cielo, nell’ora in cui
la foschia si unisce ai primi raggi,
nell’ora in cui l’orizzonte
è un riflesso sfumato
che mi appartengo.

L’orizzonte è nel profondo
Io sono l’orizzonte.

Nessuno, neanche la mia carne,
potrà rapirlo e farlo suo.

NOTA

La Poesia e il Mare



La poesia e il mare sembrano avere considerevoli tratti in comune, soprattutto sul piano espressivo. Sia l’uno che l’altra posseggono infatti l’ eccezionale capacità di rappresentare efficacemente i moti dell’animo umano.
Il mare - che talvolta ci assale con le sue schiumanti rabbie, i furori e le ripulse espresse con voce furibonda e potente e, altre volte, nella sua insidiosa variabilità, ci accompagna con la monotona e rassicurante nenia della risacca - appare avvicinarsi, con le sue manifestazioni, alla non rara volubilità dei nostri umori.
Quanto alla parola poetica c’è da dire che, tra tutte le altre forme comunicative, è quella che meglio rappresenta i veri sentimenti umani. Sostanzialmente e per sua natura essa è profondamente legata alla estrinsecazione dell’interno sentire.
In tempi remoti i naviganti udivano talvolta provenire dalle vicine rive l’ irresistibile, leggendario canto delle Sirene e quei versi sembrava loro che sorgessero miracolosamente dal mare :
Vieni qui, celebrato Ulisse, onore/ e vanto degli Achei; férmati e ascolta/ la nostra dolce melodia: nessuno/ passato è mai di qua, con la sua nera / nave, senza ascoltare prima il canto/ ch’esce armonioso dalle nostre labbra:/ poi se ne va con più saggezza e gioia” (dal libro XII dell’Odissea nella versione di Giovanna Bemporad).
Sono veramente tanti i poeti che nel corso dei secoli hanno saputo trarre ispirazione dal divo mare, esplorando con le loro rime i misteriosi collegamenti tra le vicende umane e l’appalesarsi dell’elemento marino. Sono visioni paniche che – vedasi Charles Baudelaire in una strofa de La vita anteriore – ci rappresentano marosi gonfi delle immagini del cielo che si mescolano, in modo solenne e mistico, con i potentissimi accordi della loro musica e con i colori del tramonto riflesso dagli occhi.
Omero con l’Odissea e Virgilio con l’Eneide sono, per la nostra cultura, i più alti rappresentanti di una poesia che mirabilmente esalta l’ eroe mentre percorre i perigliosi sentieri marini.
Dante, a sua volta, ha donato alla nostra lingua splendide immagini epigrafiche sulle sottili connessioni tra l’uomo e il mare: “E come quei che con lena affannata/ uscito fuor del pelago alla riva/ si volge all’acqua perigliosa e guata,/ così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,/ si volse a retro a rimirar lo passo/ che non lasciò già mai persona viva” (Inferno I,22-27); “Io venni in luogo d’ogni luce muto,/ che mugghia come fa mar per tempesta,/ se da contrari venti è combattuto” (Inferno V,28-30); “Per correr migliori acque alza le vele/ omai la navicella del mio ingegno,/ che lascia dietro a sé mar sì crudele”(Purgatorio I, 1-3); “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!” (Purgatorio VI, 76-78). E tra gli altri pregevoli versi che andrebbero commentati o almeno citati è doveroso rammentare quelli di opere note come La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, Il battello ebbro di Arthur Rimbaud, La morte per acqua di Thomas Stearns Eliot, Il cimitero marino di Paul Valéry, sino a Capitano mio capitano di Walt Whitman, ormai universalmente noto anche grazie al film L’attimo fuggente.

Queste brevi note sul tema della poesia e del mare vogliono essere un presupposto augurale e propizio ad Iomare, un libro che esordisce nella maniera più compiuta e sapiente, nel segno della spiccata e disinvolta maturità letteraria della sua autrice.
Già fin dal titolo assegnato alla raccolta, Alessandra Palombo ha evidentemente inteso rimarcare la consistenza e la profondità del suo integrarsi con l’ambiente marino. Ella ha avuto la ventura di vivere nell’Isola d’Elba la sua infanzia, l’adolescenza e la giovinezza a stretto contatto con le trasparenti e cangianti acque circostanti, potendo rispecchiare le sue emozioni, le sue gioie e le sue ansie tra gli scogli, nelle insenature e sulle spiagge di quel mare con cui si identifica.
Il percorso stilistico di Iomare non è fatto soltanto di versi. La scrittura si snoda attraverso brevi composizioni poetiche, brani in prosa, epigrafi, dediche e citazioni tratte dalla stampa. Il discorso poetico acquista così una leggerezza e una vivacità che fanno ancor più apprezzare, nella sua ricchezza formale, l’aspetto contenutistico.
Tra le composizioni riunite nel capitolo “Primo mare” sono da porre in rilievo quei versi che rievocano la stagione dell’infanzia, un’età felice nella sua inconsapevolezza : “L’oggi irradia la sua pelle chiara/ ancor calda di letargo breve,/ la pettina, la lava, l’ara tutta/ l’attira a sé lasciandole una benda/ a celare quanto a lei sta preparando,/ il presente cala/ i quadri del prossimo futuro,/ e lei, raccolta la sua essenza, s’avvia/ a penetrare la trama del destino”.
Nella successiva silloge intitolata “Secondo mare” c’è un’altra riprova della grande capacità memorativa dell’autrice che, in pochi tratti, prima in prosa, poi in versi e quindi con un’acconcia citazione, descrive con sapienti pennellate la sua adolescenza.
Mai ho visto una prima volta il mare, di pochi giorni mi posarono sull’onde. Da allora stiamo assieme, a naso in su, a scrutare l’ orizzonte, in compagnia dei venti in alta uniforme, dei cava lloni bianchi, dei temporali e della malinconica pioggia sullo specchio acquoso di bonaccia.”
Provò la ragazza, seduta sulla foglia/ verde e frastagliata della favola,/ a fuggire con la fantasia dalla famiglia,/ a volare sino al fuoco artificiale/ che deflagra,/ svelta afferrando, con scatto felino,/ una fulgida fiamma/ a rischiarare e scaldare l’antro cavo/ del suo ventre.”
Felice chi, perduto nell’amore, non conosce il mare,/ e non gli importa della notte che cala sulle onde.(Teognide, versi 1375-1376 della Silloge teognidea).”
Le navi che rollano alla fonda; il consueto lavoro dei marinai, dei pescatori con il tramaglio e del bagnino con il rastrello; i viaggi per mare per lasciare e tornare all’isola; un granchio che saggia lo scoglio a guadagnare la spiaggia, mentre impassibile il mare sottostante schiuma, sono squarci di vita che emergono, qui e là, nel testo del Terzo e Quarto mare.
Immagini, impressioni e pensieri che sono sempre e comunque debitori del mare, con quel ciuffo d’alghe, quei vortici schiumosi, quei fondali e il salmastro, i cavalloni, la bonaccia, da cui forse non è possibile evadere: “Vibrava la nave che viaggiava nel buio./ Con il suo tutto tornava nell’isola.”
Sommessamente, con una discrezione che è il segno di uno stampo e di una formazione antica, baluginano in quei versi brani venati da inconfessata malinconia: “... da lei si staccavano pensieri/ che in lei tornavano,/ puliti dalle onde,/ sotto forma di cristalli.”; “... come falena che brancola/ a cogliere raggio di luce,/ non le fu dato raggiungere/ l’invisibile traccia// e, sino al prossimo spicchio/ di chiaro, riponeva e/ ripiegava se stessa”; “... suono vaginale/ per chi da gemma a frutto/ è maturato in terra isolata per natura.”; “... malinconica nenia/ in sintesi estrema/ con il mio essere isola.”.
Il percorso prettamente autobiografico di Iomare, giunto alla sua Quinta meta, si apre con una citazione da Ada Negri, così pertinente che l’autrice inevitabilmente fa sua: “Tu immobile starai tra flutto e spiaggia,/ piccola – oh, un punto!... – in mezzo all’infinito”.
Da qui nasce una sezione del volume in cui proseguono i suggestivi versi della Nostra, ma si dà anche un congruo spazio ad alcuni autori molto apprezzati dalla Palombo: da Calvino, presentecon un brillante pezzo sull’assoluta priorità della lettura agli scrittori Maria Corti, Guidacci, Paolini Giachery e Murzi che disquisiscono sulla poesia e le sue verità. “A scavalcare/ la soglia vegetale,/ accolgo, senza remore,/ le visioni scaturite/ dalle unioni di parole”.
In una poesia del Sesto mare l’autrice recita: “...il futuro arretra,/ sguscia, scivola,/ discolo indietreggia,// assisa su schiuma/ sospesa dal suolo,/ attendo schiarisca,/ e si scopra.”
Si ha la sensazione che non serva più che Alessandra Palombo resti sospesa dal suolo ad aspettare che il futuro si esprima. Ella è una scrittrice raffinata. Il suo futuro appare essere già un presente nel campo delle lettere. La “donna dell’isola”, la “donna di mare” è veramente uno “strano animale” – come la definisce nella splendida poesia raccolta nel Settimo Mare. Sinora è stata colei che “oltre il canale allunga il suo sguardo/ e poi si ritrae”; ma adesso è giunto il momento di andare oltre il canale con sotto braccio i versi, e realizzare quell’arcano desiderio (che si intravede in una composizione a chiusura del libro) di divenire orizzonte, varcando idealmente gli ineffabili limiti dell’isola e del mare che la circonda.
La costa sparisce/ la nave è in mare aperto. / Seduta allungo le gambe,/ mi stringo nel piumino per offrire/ al vento solo la pelle del viso./ Ed è lì/ tra mare e cielo, nell’ ora in cui/ la foschia si unisce ai primi raggi/ nell’ ora in cui l’ orizzonte/ è un riflesso sfumato/ che mi appartengo./ L’ orizzonte è nel profondo./ Io sono l’ orizzonte./ Nessuno, neanche la mia carne,/ potrà rapirlo e farlo suo.”


Come si sarà notato non si è inteso fare una vera e propria analisi critica del libro, seguendo anche il parere espresso da Valéry ne Gli incanti, secondo cui le poesie andrebbero lette senza alcuna intermediazione, lasciando al lettore una libertà grandissima analoga a quella che si riconosce all’ascoltatore di musica.

Giorgio Weiss

Roma, 11 giugno 2004

Ringraziamenti e Indice


L’autrice ringrazia Gloria Chilanti per aver permesso la riproduzione di alcune foto del libro “ Dalla mia terrazza all’Isola d’Elba”, i poeti Manrico Murzi, Giorgio Weiss , Luigi Cignoni e Tonino Bergera per averla sostenuta in questo cammino e il pittore elbano Italo Bolano che a Iomare ha voluto dedicare una sua opera esposta nella mostra “A-mare” realizzata al Cassero Medievale di Prato nel febbraio 2004.



7 Prefazione di Manrico Murzi
15 PRIMO MARE
23 SECONDO MARE
31 TERZO MARE
39 QUARTO MARE
47 QUINTO MARE
57 SESTO MARE
65 SETTIMO MARE
73 POST SCRIPTUM
77 La Poesia e il Mare di Giorgio Weiss


Finito di stampare nel Luglio 2004 a Genova da Studio64 srl Edizioni
Tel 010540464 Email:studio64@studio64.it
per Liberodiscrivere www.liberodiscrivere.it