venerdì 6 aprile 2007


Il percorso acquatico si srotola in orizzontale, curvo per quanto è tondo il pianeta che ci sopporta.
La questua, patita di mare in mare, richiede l’ausilio di un remo-bastone per spingersi tra le onde della memoria: quel bagaglio di passioni, pensieri e palpiti idonei, anche se scompigliati talvolta, a svelare noi a noi stessi affinché si arrivi a conoscere l’essenza del nostro Sé: “cerco me, nel mio mare,/ per capire chi io sia”.
Remo-bastone sono i brani del cantore più amato, Teognide o Achmatova, come le riflessioni meglio incise nell’animo in moto di pellegrinaggio; e persino gli stralci di cronaca o i suggerimenti offerti da qualche giornale a salvaguardia del nostro benessere fisico.
L’unica verticalità è quella che a precipizio va incontro al fondale dell’acqua interiore: ambito esclusivo nel quale guazza lo spirito nella sua smania verso il Settimo Mare; laddove il remo-bastone, deposto, non compare, né serve più, giacché acqua-salata e coscienza-di-sé formano quel tutt’uno chiamato Iomare.
Il gabbiano, gatto che vola, cerca ancora una salpa o una mèndola per la propria fame, ma la ricerca non impegna oltre, né chiede ulteriori risposte.
La geometria delle stelle e dei battiti cardiaci, necessario aiuto alla tribolazione del navigare, è contenuta in un unico cielo senza un Profeta che lo voglia scalare. La metafora deambula il mare al plurale, quella raccolta delle acque alla quale il Padreterno appioppò il nome di “Mari”.
L’evoluzione della gagliardìa vitale ha la sua trama nei liquidi, anche in quello del sangue aggrumato che talora si squaglia e si sparge nello spiazzo consacrato a tempi laici di devoto rigore e religioso rispetto.
Così nel Primo Mare lo spirito, attore scanzonato e immaginifico, alita tra i “capelli spettinati” di un’infanzia in posa, quindi ancora condizionata da una motivata vanità: “modificare la cornice del mio seno”, si chiede.
Le prime bracciate nel sale liquido sono indolenti e lente, foderate di sonno. Ma “l’energetico miele di ecucalipto”, maestro di possessione, ha forza di pazienza nell’attesa dell’impatto con il femminino: l’abbraccio sarà cosmico, in unità di anima e corpo.
Vi è poi il rito della purificazione, come all’ingresso di un recinto sacro, e il momento di cogliere i significati che anelano ai segni vitali, utili per “penetrare la trama del destino”.
Il “poeta ormai cieco” ha buoni gli occhi dell’anima, e gioisce con agio del vento che disfa corolle di fiori e ciocche di capelli, del giuoco che corre sui prati e giù per le valli: Oh, il mare amniotico!, nostalgico inciampo d’ogni essere umano.
Nel Secondo Mare la solitudine e la dispersione dei punti di riferimento diventano angoscia lontana, e i sapori di mare e di terra circolano nelle stanze del cuore più che tra le pareti dello stomaco. Intanto il desiderio spinge ancora oltre le sue occhiate, mentre persone e cose di un amato circuito urbano, qual è in questo caso la Livorno di tempo addietro, rotolano suoni e inciampi graditi.
Nel Terzo Mare, dopo stagioni clementi, è l’inverno che infuria, al punto che lo spirito si fa una girata in groppa a un gabbiano, mentre “pesci azzurri sprizza...no / gocce d’argento”.
Qui si leva l’ode alla navigazione, una delle più belle mai ascoltate: la vita sui bastimenti a vela e i vecchi del mare: si chiamino essi Colombo o Papà Pennello… Il ritorno è sempre all’isola, l’ago della bussola punta allo “scoglio”: all’Elba come a Itaca.
Nel Quarto Mare, in acqua pescatoria, la voce la danno granchi, spugne, polpi: battiti di chele, soffi di piccoli polmoni liberati, guizzi di alette e schizzi di tinticcio… interiorità dedite all’espressione. E sono vive e pulsanti le alghe e le barche, i sassi di fondo e le banchine, le velelle e le petroliere, le darsene e gli oceani.
Nel Quinto Mare vi è smarrimento, sì, ma piena percezione del proprio corpo come barca che ci porta: “a te, acqua, / offro il mio corpo, / a te, onda, di giocare con la nuca, / a te, mare, / di sommergermi, tutta / al largo”.
Nel Sesto Mare, vibra la luce e l’intreccio di fibre e significati patito e operato da dita assidue. Vi è colloquio, finalmente vibrante, e la bella immagine di un atto amoroso: “Un faro e la luna a baciarsi nel buio e / via tra i flutti a rotolarsi le gocce”.
Nel Settimo Mare è la catarsi, l’appagamento dello spirito che si era messo in cammino. L’abbandono “al canto del vento / Voce del mare”: la donna dell’isola, di qualunque isola come luogo circoscritto e separato, è qui disegnata con immagini ricche di un vissuto sacrificale, fino ad essere Persona: l’onda la fa apparire mutevole, ma non è lei che si muove.
Non manca la conclusione di questa musica in acqua: è il Post Scriptum, quel Do che arriva dopo la scalata delle sette note, e fa riprendere il ciclo, evoca resurrezione e speranza. Caffè e brioche sono un riferimento mattiniero che distribuisce consolazione, e però l’intreccio di significati si compie oltre lo stato sensibile, quando l’orizzonte della propria interiorità non conosce né alto né basso, quando l’Iomare percepisce padronanza di dimensioni e stati di coscienza.

Manrico Murzi

Genova, 4 giugno 2004

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